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Genetica in psichiatria Quanto le differenze comportamentali osservate fra le persone dipendono dalle differenze fra genotipi e quanto dalle differenze fra gli ambienti nelle quali sono nate, sono state cresciute ed educate? (Th. Dobzhansky, 1964, primo presidente della Behavior Genetic Association). Questa è la domanda principale a cui la ricerca genetica in ambito psichiatrico si propone di rispondere, ponendo particolare attenzione a quei comportamenti complessi ritenuti patologici. Essa cerca di stabilire quanta parte del comportamento deviante è legato all'effetto di geni ereditati dai genitori e quanto all'effetto dell'ambiente sullo sviluppo dell'individuo. Gli importanti progressi conseguiti nella genetica, a cominciare dalla scoperta delle leggi dell'ereditarietà di G. Mendel, fino all'ottenimento della prima sequenza del genoma umano, permette ora di rispondere, o di tentare di rispondere, ad altre e più complesse questioni, quali la modalità con cui i geni influenzano il comportamento, oppure come varia l'influenza dei geni durante lo sviluppo dell'individuo, ecc. L'interesse della genetica per il comportamento umano nacque alla fine dell'800 quando F. Galton analizzò alcuni caratteri comportamentali in circa 300 coppie di genitori e nei loro figli adulti. Galton sostenne che i caratteri comportamentali sono ereditari; inoltre il confronto della distribuzione di questi caratteri in differenti generazioni gli permise di concludere che i tratti comportamentali erano l'effetto di molteplici unità ereditarie in interazione tra di loro. Successivamente il genetista Ch. Davenport, insieme ad altri influenti genetisti dell'epoca, sostenne una teoria piuttosto diversa secondo cui caratteri comportamentali quali il talento musicale o la «debolezza mentale» potevano essere ascritti a singoli geni. Malgrado le loro opinioni divergenti sui meccanismi della trasmissione ereditaria, Galton e Davenport furono entrambi fautori dell'idea che la razza umana andasse migliorata mediante incroci selettivi tra individui dotati di caratteri desiderabili. Fu Galton stesso a introdurre il termine di «eugenetica» alla fine dell'800; in seguito Davenport fondò un centro di ricerca per l'eugenetica umana a Long Island, presso il Cold Spring Harbor Laboratory, dove portò ulteriormente avanti il programma. L'osservazione che i disturbi mentali hanno una tendenza a ricorrere nelle famiglie è antica, ma alcune registrazioni effettuate a partire dal 1820 presso il Bethlem Royal Hospital di Londra e in altri ospedali europei mostrano tentativi di raccolta sistematica dei dati relativi alla storia familiare dei ricoverati volti a dimostrare questa associazione. A partire da queste prime osservazioni, e in base a precedenti studi di genetica comportamentale, agli inizi del '900 si formò a Monaco, sotto la guida di E. Kraepelin, il primo gruppo di ricerca sulla genetica psichiatrica, condotta con criteri scientifici. Nel 1916 E. Rudin, in collaborazione con Kraepelin, condusse il primo studio familiare in Europa su pazienti affetti da dementici praecox in accordo con il sistema diagnostico krepeliniano, raggiungendo risultati sorprendentemente simili a quelli ottenuti con gli attuali sistemi di indagine. Lo stesso Rudin fu, in seguito, direttore del Deutsche Forschungsanstalt für Psychiatrie e inaugurò la Scuola di psichiatria genetica di Monaco. Purtroppo da queste istituzioni emersero i criteri scientifici su cui si basò il programma di «eutanasia» portato avanti dal regime nazista. I disturbi psichiatrici maggiori venivano considerati di origine genetica; le malattie genetiche venivano considerate virtualmente incurabili e pertanto tutti i pazienti psichiatrici incurabili dovevano essere eliminati. Lo stesso programma prevedeva la sterilizzazione o l'eliminazione di tutti i gitani perché venivano considerati geneticamente predisposti al crimine. Sfortunatamente diversi eminenti psichiatri tedeschi, compreso K. Schneider, aderirono a questo programma collaborando a eliminare i propri pazienti. Sempre a Monaco, sotto la guida di Kraepelin, si formò E. Slater, giovane psichiatra proveniente dal Maudsley Hospital di Londra, che, una volta tornato in patria, costituì nel 1935 il proprio gruppo di ricerca. A partire da questo gruppo nel 1959 fu creato il Medical Research Councils Psychiatrie Genetics Unit, che divenne uno dei centri di riferimento per la formazione di scienziati nell'ambito della genetica psichiatrica. Lo stesso Slater pubblicò nel 1971 il primo testo in inglese di genetica psichiatrica. L'attuale fiorente campo della genetica psichiatrica si avvale delle più avanzate tecniche di analisi statistica e biologia molecolare e include diverse strategie di ricerca, tra cui le più importanti sono la genetica quantitativa e la genetica molecolare. La genetica quantitativa comportamentale si dedica all'analisi dell'influenza dei fattori genetici e di quelli ambientali su comportamenti complessi normali o patologici; è in grado, quindi, di specificare quanta parte delle differenze (varianza) di un comportamento preso in esame tra diversi individui sia dovuto a differenze genetiche tra gli individui e quanta parte sia frutto dell'interazione dell'individuo con l'ambiente. In questo ambito l'ambiente viene inteso nel senso più ampio possibile, includendo tutti i tipi di influenza esterna a ciò che viene ereditato dai genitori: le relazioni interpersonali in ambito familiare, ma anche eventi precedenti alla nascita oppure eventi biologici come la nutrizione e la malattia. Questo tipo di studi non è tuttavia in grado di specificare quali fattori genetici o quali fattori ambientali siano coinvolti nell'eziopatogenesi delle malattie. Per raggiungere questi obiettivi, la genetica quantitativa utilizza principalmente gli studi sulle adozioni e quelli sui gemelli. Molti comportamenti sono ricorrenti nelle famiglie, ma le somiglianze fra i membri di una famiglia possono essere dovute sia alla genetica che all'ambiente di crescita. Le adozioni creano coppie di individui che sono geneticamente imparentati, ma che non condividono lo stesso ambiente di crescita, e coppie che condividono lo stesso ambiente familiare, ma che non sono geneticamente imparentate; questo permette agli studiosi di distinguere gli effetti della genetica da quelli dell'ambiente. Gli studi sulle coppie di gemelli mettono a confronto, per un determinato carattere, le coppie monozigoti -geneticamente identiche - e le coppie di gemelli fraterni - o dizigoti. Se i fattori genetici sono importanti per il comportamento oggetto di indagine, i gemelli identici saranno molto più simili fra di loro dei gemelli fraterni. Una volta stabilito quanto l'ereditarietà è importante per la comparsa di un comportamento, diventa possibile individuare gli specifici geni coinvolti nella determinazione di alcuni comportamenti. A questo scopo la genetica psichiatrica si avvale delle metodologie di indagine della genetica molecolare; quest'ultima indaga direttamente i meccanismi biologici che stanno alla base dell'ereditarietà: il codice genetico contenuto nella sequenza di basi del Dna. Il recente completamento del Progetto genoma umano (e quindi il sequenziamento di tutto il patrimonio genetico dell'uomo) ha messo a disposizione dei ricercatori una fonte infinita di informazioni che solo nei prossimi anni darà appieno i suoi frutti. Gli studi di genetica quantitativa hanno permesso di stabilire l'importanza dell'influenza genetica per quasi tutti i comportamenti umani, specialmente nel caso dei disturbi psichiatrici più gravi, come la schizofrenia e il disturbo dell'umore di tipo bipolare. In tutti i casi i risultati suggeriscono la presenza di più varianti di diversi geni (non sempre patologiche) in interazione tra di loro e con molteplici fattori ambientali nel determinare l'insorgenza del disturbo psichiatrico. Questa ipotesi, chiamata «multifattoriale», conferma con circa un secolo di ritardo l'ipotesi di Galton sull'interazione di più geni tra di loro, escludendo quindi l'ipotesi che alla base delle malattie mentali possa essere un singolo gene difettoso. Gran parte della ricerca genetica psichiatrica si è focalizzata sulla schizofrenia piuttosto che su altre aree di psicopatologia, essendo da un lato questa malattia particolarmente grave e dall'altro piuttosto diffusa (prevalenza dello 0,5%). A partire dagli anni '60 del '900, più di 40 studi sulle famiglie hanno dimostrato in maniera univoca che la schizofrenia è familiare. Il rischio per i parenti aumenta in base al grado di parentela che il soggetto presenta con il probando schizofrenico: 4% per i parenti di secondo grado e 9-10% per i parenti di primo grado, rispetto a un rischio di sviluppare la malattia per la popolazione normale dello 0,5%. Studi sugli adottivi e sui gemelli hanno permesso di dimostrare che la genetica contribuisce in maniera determinante alla predisposizione familiare alla schizofrenia. Il primo studio sulle adozioni riguardante la schizofrenia, effettuato da L. Heston nel 1966, è diventato un classico. I risultati mostravano come il rischio di schizofrenia nei figli di madri schizofreniche che venivano adottati rimaneva dell'11%, sostanzialmente uguale a quello dei parenti di primo grado e molto maggiore del rischio nullo dei figli adottivi nati da genitori biologici sani. Il rischio dell'11% di contrarre la schizofrenia è inoltre simile al livello di rischio registrato per i figli cresciuti dai loro genitori biologici malati di schizofrenia. Questo risultato indica non solo che la somiglianza familiare per la schizofrenia è in buona parte di origine genetica, ma anche che crescere in una famiglia con malati schizofrenici non incrementa il rischio di sviluppare la malattia oltre la soglia di rischio legata all'ereditarietà, escludendo così l'ambiente familiare come fattore di rischio. Gli studi gemellati e adottivi condotti negli ultimi anni in Europa e in Giappone forniscono un tasso di concordanza per gemelli identici di circa il 50% e per gemelli fraterni di circa il 15%: questi dati consentono di stimare un'eredi-tabilità del rischio di ammalare di schizofrenia pari all'80% (vale a dire che la differenza osservata nel rischio di ammalare tra i diversi individui è per l'8o% ereditaria e quindi genetica). Va anche sottolineato come questi studi, oltre a fornire un'importante evidenza dell'influenza dei fattori genetici, forniscono anche dati probanti l'importanza dell'ambiente. Infatti, più della metà delle coppie di gemelli identici, cioè con lo stesso patrimonio genetico, risulta essere discordante per la malattia (nel 50% dei casi solo uno dei due gemelli identici si ammala): considerando che sono perfettamente identici per i fattori genetici coinvolti, questo è un chiaro indice dell'importanza dei fattori ambientali nello sviluppo della malattia. Questi studi non sono purtroppo in grado di identificare i fattori ambientali in gioco, che possono includere, come accennato in precedenza, sia fattori sociofa-miliari, sia fattori di rischio perinatali oppure infettivi, ecc. (l'ambiente familiare in senso stretto era già stato escluso come fattore di rischio dagli studi sugli adottivi). Sull'onda di questi risultati che suggerivano un'importante base genetica per la schizofrenia, a partire dagli anni '80 sono stati condotti numerosi studi di biologia molecolare volti a identificare le regioni cromosomiche coinvolte oppure a valutare l'effetto di possibili «geni candidati». Per gene candidato si intende un gene codificante per una proteina che si pensa essere coinvolta nelle basi neurobiologiche della malattia, come in questo caso i neurotrasmettitori dopamina e serotonina. In realtà, nonostante i numerosi studi condotti, i risultati appaiono sinora non conclusivi, sebbene alcune evidenze di associazione, soprattutto tra le forme più gravi di schizofrenia e i cromosomi 6p, 13q e 22q, il recettore dopaminergico DRD3 e il recettore serotoninergico 5HT2a, siano stati riportati da diversi gruppi di ricerca in tutto il mondo. La spiegazione più probabile di questi risultati non univoci è l'ipotesi multifattoriale, ovvero che la predisposizione ad ammalare di schizofrenia sia determinata da più geni, di effetto modesto, in interazione tra di loro, nessuno dei quali necessario o sufficiente per determinare l'insorgenza della malattia. Nell'ambito dei disturbi dell'umore, gli studi familiari, sui gemelli e sugli adottivi dimostrano chiaramente la presenza di un importante carico genetico per il disturbo bipolare. Il rischio di contrarre la malattia per i parenti di primo grado è tra l'8 e il 10% rispetto a un rischio dell'1% nella popolazione generale, mentre l'ereditabilità è stata stimata tra il 60 e 85%. È interessante notare come i figli di gemelli identici di cui solo uno affetto da disturbo bipolare mostrano lo stesso 10% di rischio per la comparsa di un disturbo dell'umore, indipendentemente dal fatto che siano figli del fratello malato o di quello sano. Questo implica che il gemello che non ha sofferto di depressione bipolare può comunque trasmettere ai propri figli la predisposizione ad ammalarsi come il gemello identico malato. Per la depressione unipolare i risultati sono molto meno chiari, sebbene nelle forme più gravi (ad esempio quelle che richiedono un ricovero ospedaliero) e nelle depressioni a esordio precoce sia più evidente un carico genetico. La difficoltà a raggiungere risultati più chiari potrebbe principalmente essere dovuta alle maggiori difficoltà che si riscontrano nell’effettuare le diagnosi: probabilmente sotto la stessa etichetta diagnostica sono presenti diverse forme di malattia molto eterogenee dal punto di vista eziopatogenetico. Gli studi di biologia molecolare, volti a identificare i geni coinvolti, hanno, anche in questo caso, portato a risultati, per il momento, non conclusivi. Tra i geni probabilmente coinvolti nell'eziopatogenesi del disturbo depressivo il più interessante è il gene che codifica per una regione che aumenta la produzione del trasportatore della serotonina. Questa proteina è coinvolta nella ricaptazione della serotonina a livello delle sinapsi cerebrali ed è inoltre il sito dì azione dei farmaci antidepressivi di nuova generazione (farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). Gli individui portatori della variante meno funzionante di questo gene, quando vengono esposti ad eventi di vita particolarmente stressanti (quali la perdita del lavoro, divorzi o separazioni, ecc.), tendono a presentare più facilmente degli episodi depressivi conclamati. Le ricerche genetiche disponibili nel caso dei disturbi d'ansia sono meno numerose e i risultati ancor meno conclusivi. In ogni caso esistono forti evidenze di un'influenza genetica nel caso del disturbo da attacchi di panico, del disturbo d'ansia generalizzato, del disturbo ossessivo-compulsivo e del disturbo posttraumatico da stress. Alcuni studi hanno suggerito una componente genetica anche nei disturbi alimentari, sia nell'anoressia che nella bulimia. I disturbi psichiatrici a esordio nell'infanzia solo recentemente sono stati oggetto di studio a livello genetico, sebbene sia stimato che circa un bambino su cinque presenti un disturbo clinicamente diagnosticabile. I risultati più importanti sono quelli ottenuti nell'autismo. Fino agli anni '80 si pensava che l'autismo fosse dovuto a condizioni ambientali quali la mancanza di affetto o un atteggiamento di rifiuto da parte dei genitori, oppure a danni cerebrali. Gli studi genetici familiari e sulle coppie di gemelli hanno permesso di dimostrare che il rischio per un bambino che ha un fratello affetto da autismo di avere la stessa malattia è tra il 3 e il 4%, circa 75 volte più alto rispetto a un bambino senza un fratello affetto. Il tasso di concordanza per la malattia tra gemelli omozigoti è stimato attorno al 64% mentre per i gemelli eterozigoti è pari al 9%. L'ereditabilità, cioè la quota di varianza del disturbo spiegata da fattori genetici, è stata quindi stimata tra 80 e 90%. Sulla base di queste scoperte la visione concernente l'autismo è radicalmente cambiata: anziché un disturbo determinato dall'ambiente familiare, esso viene ora considerato uno dei disturbi mentali più ereditabili. Sempre nell'ambito dei disturbi infantili, gli studi gemellari si sono dimostrati concordi nel mostrare una forte componente genetica (con un'ereditabilità maggiore del 70%) nella determinazione dell'iperattività, indipendentemente dal fatto che questa fosse indagata come tratto comportamentale o all'interno della categoria diagnostica del disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Questa forte evidenza ha portato alla recente crescita di numerosi studi di genetica molecolare su campioni molto ampi di bambini. Diversi gruppi hanno evidenziato la possibile associazione con le varianti di un gene codificante per il recettore della dopamina DRD4 e di un gene codificante per il trasportatore della dopamina (DAT1). I disturbi della personalità, che si trovano al confine tra la normalità e la psicopatologia, rappresentano un'altra area di interesse in progressiva crescita nell'ambito della ricerca genetica in psichiatria. Recenti dati emersi dagli studi genetici suggeriscono che possa esistere un continuum di differenze individuali che va dalla personalità normale ai disturbi di personalità fino alla psicopatologia conclamata. Per esempio, la variabilità genetica nel disturbo nevrotico è ampiamente responsabile della variabilità genetica nell'ansia e nella depressione. Una sovrapposizione genetica suggestiva di un continuum genetico o di uno stesso substrato genetico è stata individuata anche per il disturbo schizotipico di personalità e la schizofrenia, il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità e il disturbo d'ansia ossessivo-compulsivo. L'ultima e più recente area di interesse della genetica psichiatrica è la «psicofarmaco-genetica». Il termine «farmacogenetica» è stato coniato nel 1959 da F. Vogel e si riferisce allo studio dell'ereditabilità delle differenze individuali nel metabolismo dei farmaci (farmacocinetica) e nella risposta ai farmaci a livello dell'organo bersaglio, nel nostro caso il sistema nervoso centrale (farmacodinamica). Lo scopo ultimo della psico-farmacogenetica è poter costruire, per ogni paziente psichiatrico, un profilo individuale di risposta ai farmaci (basato per esempio sulla caratterizzazione delle varianti dei recettori per i diversi neurotrasmettitori a livello del sistema nervoso centrale) e di comparsa di effetti collaterali, per poter così massimizzare l'efficacia di risposta e ridurre al minimo gli effetti collaterali. La recente identificazione di un polimorfismo genetico in un enzima coinvolto nel metabolismo dei principali farmaci psichiatrici ha permesso di cominciare a fare luce, e di fornire alcune possibilità di intervento, sulla cosiddetta «farmaco-resistenza». Questa recente scoperta permette, inoltre, di individualizzare il dosaggio, diminuendo così i rischi di effetti collaterali e aumentando le probabilità di risposta alla psicofarmacoterapia. Per concludere, bisogna considerare come spesso l'opinione pubblica reagisca con paura o sospetto alla scoperta di geni associati al comportamento umano, e come spesso la genetica psichiatrica venga accusata di «geneticizzare» i disturbi psichiatrici, assumendo e incoraggiando, in tal modo, un'attitudine deterministica nei confronti di queste malattie. Il primo punto da considerare è che i geni non rappresentano il destino. I fattori genetici rappresentano propensioni probabilistiche e non programmi predeterminati; essere portatori di specifici geni associati con una malattia non vuol dire che questa sia immodificabile attraverso interventi sull'ambiente. La ricerca genetica fornisce, come abbiamo visto, la migliore dimostrazione possibile dell'importanza delle influenze ambientali nello sviluppo dell'individuo e quindi nella comparsa della malattia mentale. Possiamo prendere ad esempio la fenilchetonuria: questa malattia porta al ritardo mentale a causa della variazione di un singolo gene (quindi una malattia la cui causa è esclusivamente genetica), e la terapia consiste in una modificazione esclusivamente ambientale: una dieta priva di fenilalanina. Certo, bisogna accettare l'evidenza che parte delle differenze comportamentali tra gli individui dipende dal patrimonio genetico e che quindi gli individui non sono uguali tra di loro. Tuttavia, il ritrovamento di differenze genetiche tra gli individui deve essere uno stimolo a riflettere sul fatto che l'essenza di una democrazia risiede nella capacità di riconoscere a tutte le persone gli stessi diritti nonostante le loro differenze. Un'altra preoccupazione è che l'evidenza di un'influenza genetica in una data malattia possa aumentare lo stigma già associato alla malattia mentale e portare a un'ulteriore discriminazione delle persone a rischio genetico. In realtà, aumentare le conoscenze sulle cause delle malattie mentali deve, al contrario, servire a demistificarle e renderle in un certo senso più accettabili agli occhi del pubblico, legittimandole come «vere» malattie e non come debolezze o fallimenti personali. L'identificazione di geni legati a un particolare disturbo può portare a un'identificazione corretta e più precoce della malattia, il che può permettere la progettazione e la messa in atto di misure preventive, oppure di interventi clinici e riabilitativi più mirati e quindi particolarmente efficaci. Per esempio, sapere che certi bambini hanno un rischio maggiore di presentare un comportamento patologico potrebbe permettere la messa in atto di interventi ambientali atti a prevenire l'insorgenza del disturbo, piuttosto che tentare di curarlo quando si è già manifestato. D'altra parte, se un eccesso di «geneticizzazione» ha portato ai tristemente noti eccessi del programma di «eutanasia» nazista, è sbagliato assumere che le spiegazioni ambientali siano sempre buone. Sino agli anni '60 l'ambientalismo ha portato ad addossare le colpe dei problemi dei bambini su quello che i genitori avevano fatto loro nei primi mesi o primi anni di vita. Una coppia di genitori di un bambino affetto da autismo si trovava a fronteggiare per una vita intera una patologia gravissima e senza possibilità di guarigione. A questo andava aggiunto il senso di colpa legato al fatto di avere causato la malattia con il proprio comportamento. Oggi sappiamo con certezza che tutto questo non è vero. L'atteggiamento più corretto ed equilibrato risiede nel riconoscere l'importanza sia delle influenze genetiche sia delle influenze ambientali, garantendo così la giusta attenzione ai bisogni dell'individuo, nel rispetto delle differenze genetiche-ereditarie e tenendo nella giusta considerazione le circostanze ambientali che possono favorire al meglio lo sviluppo di ogni persona. MARIA NOBILE |